Storie dell’Atlantico: Suonala ancora Sam

In una bella serata in rada a Caprera, tra la luna piena e i garriti dei gabbiani, tra uno spaghetto alle vongole e un bicchiere di vino, chissà come viene fuori una delle storie dell’Atlantico di tanto tempo fa, di quelle storie di Omero che ci vorrebbe un audiolibro, più che un libro, per raccontarvele per bene…

Comincia da una semplice domanda sulle vele e finisce con “Vincerò”.

Sai quante vele ho strappato e ricucito io? Decine di volte ho dovuto ammainare in pieno oceano e cucire per ore. Quasi sempre è possibile ricucire abbastanza bene sia la randa che i fiocchi, ma a volte proprio no… Mi ricordo una volta, tanti anni fa, con l’Hélène: avevo dovuto aspettare tre giorni per uscire da Gibilterra in oceano – c’era ponente, ponente, sempre ponente. Appena calò un po’ uscimmo, ma le previsioni meteo non ci avevano azzeccato e appena al largo del Marocco prendemmo una bella sventolata da sud. Cominciammo a fare bordi di qua e bordi di là per avanzare verso le Canarie, ma il vento era davvero troppo: prima si strappò la randa, poi il fiocco piccolo, poi il genoa – “Ragazzi, ci dobbiamo fermare”.
Eravamo proprio al traverso di Casablanca, accendemmo il motore ed entrammo. Il porto lo conoscevo perché era la seconda volta che mi ero dovuto fermare lì – la prima già era stata un’avventura, e me la ricordavo molto bene.
Quella prima volta all’ingresso del porto di Casablanca, qualche anno prima, anche lì bloccati da una burrasca da sud, il motore non si era voluto accendere. Ci eravamo rimessi a fare bordi al largo mentre cercavo di capire come risolvere il problema: la batteria del motorino di avviamento era evidentemente scarica, così decisi di provare collegando un generatore eolico alla batteria mentre continuavamo a tirare bordi e dopo un’oretta il motore si riaccese – ci vuole anche fortuna nella vita. Riuscimmo quindi a entrare, ormeggiammo e scendemmo per far dogana. L’ufficio era un capannone grandissimo, sarà stato 1.000 metri quadrati, arredato solo con una scrivania completamente vuota al centro e due sedie, una da un lato e una dall’altro. Mi sedetti e aspettai l’ingresso dell’ufficiale doganiere: dopo poco comparve un uomo di mezza età, sarà stato alto non più di un metro e mezzo, avvolto in un trench troppo simile a quello di Humphrey Bogart per essere un caso, con cappello tipo borsalino in testa e occhiali da sole.
Nel mio fluente francese provai a spiegargli che avevo un problema a bordo: uno dei membri del mio equipaggio voleva assolutamente sbarcare e rimpatriare – aveva mal di mare da Gibilterra e non se la sentiva di continuare – ma non aveva portato con sé il passaporto, sicuro di sbarcare alle Canarie in territorio europeo. Humphrey fu inflessibile: non solo non può rimpatriare, ma non può neppure scendere dalla barca. Mentre tornavo verso la barca sperando che il vento smontasse e che potessimo ripartire presto, vidi passare sul cassone di un furgoncino proprio il ragazzo senza il passaporto, che aveva chiesto un passaggio per il consolato italiano. Lui mi salutava allegro con la mano, felice come un pasqua di essere in terraferma, ma Humphrey cominciò ad urlare che ci avrebbe arrestato tutti e anche se non era molto credibile con quell’abbigliamento riuscì ad incutere abbastanza timore da far risalire tutti a bordo. Per fortuna il vento girò, e l’indomani ripartimmo…

Non avevo quindi un gran bel ricordo di Casablanca quella seconda volta che ci entrai, tanto più che il problema che avevo non era neppure facile da risolvere: le vele erano tutte da ricucire e se possibile alla svelta, perché, come sempre, non potevo perdere più di tanto tempo.

Mentre l’equipaggio smontava randa e fiocchi mi avviai alla ricerca di Humphrey per fare dogana, ma non ce n’era più traccia… Cominciai a chiedere in giro, sempre nel mio fluente francese, chi poteva avere gli strumenti per cucire delle grosse vele. Uno dei pescatori del porto mi accompagnò dal “velaio” di Casablanca: un uomo sulla cinquantina, ex colonnello dell’esercito in pensione, alto e con un fisico atletico, capelli a spazzola, vestito con pantaloni militari e a torso nudo. Per vivere cuciva piccoli oggetti da vendere ai turisti: di vele non ne sapeva nulla, ma aveva una macchina da cucire e abbastanza spazio per stenderle nel suo atelier, un grosso capannone un po’ fuori dalla zona del porto, quindi provai a spiegargli il da farsi. “Pas de problèmes” disse, e furono le uniche parole che gli sentii pronunciare.

Dovevamo capire come portare le vele, grosse e pesanti, fin laggiù, ma in Marocco i problemi non esistono: quel pomeriggio stesso il colonnello si presentò in banchina con i suoi zii, contadini, muniti di asino e carretto. Caricammo tutto, trasportammo le vele in atelier e in due – io che spiegavo come fare e lui che faceva – ricucimmo tutto in un giorno e una notte. Non erano venute proprio benissimo, avevano delle toppe colorate qua e là, ma potevano funzionare almeno fino alle Canarie. Riportammo randa e fiocchi a bordo sempre con l’asino e il carretto e a quel punto chiesi quanto dovevo pagare per il lavoro. Il colonnello, sempre con tono serio, mi chiese 500 diram e l’audiocassetta delle arie liriche cantate da Pavarotti che aveva visto sul tavolo da carteggio. “Mi piace molto Vincerò” disse, e se ne andò cantando.

E anche quella volta, il vento girò e l’indomani ripartimmo. 

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