Razzoli: l’isola del faro
È molto difficile scegliere una delle isole dell’Arcipelago della Maddalena (e tra l’altro non è necessario !), ma se me lo chiedessero io non avrei molti dubbi: è Razzoli la mia preferita.
L’isola di Razzoli è la più esposta verso le Bocche di Bonifacio, è quella più remota, meno frequentata, più difficile da raggiungere e da apprezzare – con le sue rocce appuntite e le sue rade poco accessibili, esposte a ponente. Ma è anche quella che più delle altre profuma di elicriso, la più silenziosa, la più affascinate, e quella che ha la storia più bella da raccontare, la storia del suo faro e dei faristi che per anni lo hanno abitato.
Razzoli è diversa dalle altre isole dell’arcipelago: è più rocciosa, ha meno spiagge, ha un aspetto molto più ostile e impervio, e forse per questo non tutti riescono ad apprezzarla, ma se si supera la diffidenza e ci si avvicina, non si può non riconoscere e apprezzare la sua bellezza selvaggia, solitaria e assoluta. È questo uno dei motivi per cui mi piace (proprio come mi piace l’isola di Saint Vincent alle Grenadine, con le sue spiagge nere), e pare che sia una delle prime cose notate anche dal giornalista Vittorio Rossi che visitò l’isola di Razzoli nel 1957.
Rossi era un inviato del Corriere della Sera che per uno dei suoi articoli dedicati ai cambiamenti dell’Italia in quegli anni (la rubrica si chiamava “Piccolo mondo antico e moderno”) visitò il faro dell’isola di Razzoli. Sbarcato sull’isola trovò ad accoglierlo il farista con suo figlio, un ragazzino di dodici anni, che descrive così: “Pareva che vivesse in un posto dove c’erano molte cose e lui non avesse neanche il tempo di guardarle e goderle tutte. Io vedevo solo rocce sconvolte e tormentate e cespugli selvatici. Ma le cose sono negli occhi che le guardano, non fuori di essi; così succede che molti non trovano mai niente da guardare“.
Il faro dell’isola di Razzoli
Al di sopra del mare verde smeraldo, delle rocce appuntite dal vento e del silenzio che regna sovrano, è l’imponente costruzione del faro che domina l’isola di Razzoli. Costruito su punta Maestro nel 1843 e acceso nel 1845, fu uno dei primi fari attivi sulle coste sarde (insieme a quello di Capo Testa) e fondamentale per la navigazione nelle Bocche di Bonifacio. Oggi il faro è abbandonato, e accanto a lui sorge la nuova torre per la segnalazione luminosa, automatica, costruita nel 1974.
C’è un sentiero che conduce al faro (da visitare con attenzione e solo dall’esterno), ed è una breve passeggiata che consigliamo sempre di fare a chi è a bordo con noi: poche centinaia di metri immersi nel profumo e nel silenzio, ad ogni curva uno scorcio mozzafiato sul mare e sulle coste frastagliate, fino ad arrivare in cima per godere di una vista strepitosa sulle Bocche, insieme ai gabbiani reali che giocano con il vento. E, perché no, una volta che si è lassù si può anche provare ad immaginare per qualche minuto la vita di chi per anni ha vissuto in quest’eremo.
Prima dell’elettrificazione, avvenuta nel 1962, e del definitivo abbandono della struttura nel 1969, nel faro dell’isola di Razzoli abitavano i faristi e le loro famiglie: dieci persone in tutto, undici contando anche il maestro. I faristi avevano il compito di vigilare sul corretto funzionamento delle luci e di tutta la struttura, e la loro vita, romantica per definizione ai nostri occhi, era in realtà una routine molto rigida, imposta dal compito importantissimo che rivestivano per la sicurezza e la navigazione. Del resto – di quello che davvero percepivano e sentivano di una vita tanto distante dal mondo e dalle cose – sappiamo poco.
Sappiamo che vivevano senza la luce elettrica, senza un bagno, sappiamo che a portare le derrate alimentari e tutti i generi di necessità sull’isola di Razzoli erano degli asini dai nomi improbabili: Menelik, Martina, Moscardino, Bicicletta. Sappiamo che negli anni dal 1956 al 1961 un programma ministeriale che si proponeva di diffondere l’istruzione anche nelle comunità più remote del paese istituì le “Scuole dei Fari“, ovvero scuole elementari per i figli dei faristi e fanalisti che avrebbero altrimenti dovuto vivere lontani dai figli per farli studiare.
E sappiamo che c’era, allora come ora, tanto vento. Scrive ancora Rossi: “C’erano i conigli, le capre selvatiche, le lucertole, le bisce, i corvi e il rumore del vento. Il rumore del vento poteva anche aumentare o diminuire, ma non si fermava mai; passava le finestre e le porte chiuse, entrava in casa ed era come il rumore di un carrello da miniera che passava sopra la testa e non smetteva mai, giorno e notte di passare“.