Endurance intrappolata nel ghiaccio

La storia dell’Endurance e di Sir Shackleton

Mi piacciono le barche, sí, ma i miei stand preferiti al Salone di Genova  sono stati sicuramente quelli delle case editrici.  Ho potuto comprare pochi libri, per limiti di spazio, ma sono pieni di storie e mi terranno compagnia a lungo… Il primo dei miei acquisti che ho letto (sarebbe meglio dire divorato) è La storia dell’Endurance di Alfred Lansing, un grande classico che si merita un lungo post, di quelli da leggere quando fuori piove…
E se poi vi appassionate, il libro potete comprarlo qui:
storia dell'Endurance intrappolata nel ghiaccio
L’Endurance intrappolata nel ghiaccio

Credo che pochi di quelli che leggono questo blog non conoscano la straordinaria storia dell’Endurance e del suo comandante, di Sir Ernest Shackleton, ma che la conosciate o no vi consiglio di leggere il libro. Non è un romanzo, ma la fedele ricostruzione dell’impresa epica di Shackleton e dei ventisette uomini che al suo comando raggiunsero il continente Antartico nel 1914, con la missione di attraversarlo a bordo di slitte trainate da cani e di essere così i primi a compiere l’esplorazione del continente praticamente sconosciuto all’epoca.

L’Endurance era una goletta solidissima, ma il ghiaccio antartico dev’essere la dimostrazione più assoluta delle forze della natura, e la inghiottí in poco tempo. Shackleton e i suoi resistettero imprigionati dalla stretta della banchisa per mesi (dal gennaio al novembre del 1915), finché la pressione del ghiaccio si fece talmente forte da stritolare letteralmente la nave, che dovette essere abbandonata. Immaginatevi questi uomini persi in Antartide, con temperature di meno 30, venti gelidi, niente GPS, niente radio, niente abbigliamento termico. Su Shackleton gravava la responsabilità delle loro vite, e la sfida di riportarli a casa sani e salvi sembrava aldilà delle possibilità umane.

L'abbandono dell'Endurance

L’agonia finale dell’Endurance

Accampati con i loro pochi attrezzi, le scorte alimentari, i cani e tre barche di legno resistettero su un blocco di ghiaccio alla deriva per altri 4 mesi. Furono mesi durissimi, passati a procacciarsi il cibo con pochi mezzi, a trascinare tonnellate di peso alla ricerca delle zone più solide della banchisa e di qualche miglio verso Nord Ovest, a combattere con la sensazione di non potercela fare, di essere in balia degli elementi.

Il libro riprende moltissime delle annotazioni degli uomini nei loro diari e quello che colpisce è la capacità di adattamento a quella situazione ai limiti della sopportazione: “Uno dei giorni più belli che abbiamo mai trascorso. È un piacere essere vivi“, scrive uno degli uomini alla deriva dopo aver passato la giornata a rammendarsi i pantaloni e a pulire una pelle di foca.

Shackleton emerge dal racconto come un comandante straordinario, capace di leggere le predisposizioni e lo stato d’animo dei propri uomini, di guidarli in qualsiasi condizione. Sembra immune alla fatica fisica che condivide con l’equipaggio, e costantemente in grado di prendere decisioni difficilissime e senza possibilità di appello. Mentre i suoi uomini vivono una routine ai limiti dell’assurdo alla deriva sul ghiaccio antartico, lui studia di continuo le possibili evoluzioni della situazione, le distanze, le maree, le condizioni atmosferiche, le possibilità di riuscita di un piano rispetto all’altro, dimostrando un rispetto per la vita propria e degli altri che è una straordinaria lezione ancora dopo più di un secolo. Non per niente la storia dell’Endurance viene studiata ancora nei corsi di leadership e di gestione ad alti livelli.

l'accampamento sul ghiaccio

L’accampamento sulla banchisa, detto “Campo Oceano”

Nell’aprile del 1916 il ghiaccio lo aiutò a prendere una decisione: cominciò a sciogliersi e le barche dovettero essere messe in acqua. I 28 uomini, stipati su 3 gusci di legno lunghi 6 metri in uno dei tratti di mare più ostili al mondo, percorrendo poche miglia al giorno tra i ghiacci, i venti contrari e gelidi, le onde, la pioggia e l’impossibilità di fare punti nave precisi, arrivarono sull’isola di Elephant. Luogo inospitale, freddo, non solo disabitato ma anche al di fuori delle rotte di qualunque flotta, l’isola riuscì a dare all’equipaggio dell’Endurance giusto il sollievo della terraferma, di qualche forma di vita, di una notte di sonno.

Da lí le strade per la salvezza erano due: Capo Horn, vicina ma praticamente impossibile da raggiungere via mare, o la Georgia Australe, 650 miglia a Est. Shackleton scelse questa seconda rotta, selezionò 5 uomini (una decisione penosa), armò meglio che si poteva la più veloce e marina delle barche che aveva e partí. In due settimane il piccolo gruppo attraversò lo Stretto di Drake, un po’ a vela e un po’ a remi, su una barca di 6 metri, tra venti a 60 nodi e onde di 20 metri. Un’impresa straordinaria.

Anche se fossero stati attrezzati a dovere, “beccare” un’isola larga poco più di 20 miglia nell’immensità dell’Oceano avendo a disposizione solo il sestante (e neppure tutti i giorni a causa delle condizioni meteo) è già di per sè incredibile. Della rotta e delle scelte di navigazione era incaricato il secondo di Shackleton, Tom Worsley. Sarà l’orgoglio di ruolo, sarà che ho sempre avuto simpatia per chi sta dietro alle grandi imprese in posizione defilata, ma Worsley a me sembra un eroe al pari del suo comandante.

Ma la storia dell’Endurance non era finita neppure con l’arrivo in Georgia Australe! C’era da attraversare l’isola per arrivare alla base dei balenieri. Impossibilitati a farlo via mare a causa della condizioni meteo, gli uomini lo fecero via terra, percorrendo un passaggio tra i ghiacciai – considerato ancora oggi quasi impossibile da affrontare – con quindici metri di cima e un’ascia da carpentiere per attrezzatura. E dalla base ripartire ancora una volta per andare a recuperare gli uomini lasciati sull’Isola di Elephant…

Il finale non ve lo racconto. Vi dico solo che è sinceramente emozionante, soprattutto perché descritto senza fronzoli nello stile davvero anglosassone che è caratteristico di tutto il libro. L’emozione nasce solo dalla capacità di Lansing di averci fatto entrare nelle teste e nella storia dell’Endurance e soprattutto dei suoi uomini. Alla base di Stromness in Georgia Australe ci sono arrivata anche io senza fiato, stanca, sporca, affamata, incredula.

Soprattutto ci sono arrivata pensando che oggi chi naviga ha delle agevolazioni e dei lussi incredibili, di cui sarebbe bene ricordarsi soprattutto in certi momenti… Lungi da me pensare che si stesse meglio allora: anche se dentro di me dico che mi sarebbe piaciuto affrontare un’impresa di quel tipo, in fondo in fondo credo che sarei morta di stenti e di paura. Ma una cosa può sopravvivere intatta, di quei tempi, nell’andar per mare: la cultura marinara. L’umiltà, la determinazione, il rispetto dei ruoli, la conoscenza della navigazione e della barca, la disciplina, la voglia di emozionarsi, di scoprire, di saper apprezzare la semplicità della vita in mare. Sono cose che servono anche se abbiamo GPS, satellitare, cerate e cibo in abbondanza. Ma sono cose che non si comprano nei negozi di nautica e che neppure si imparano necessariamente andando per mare. Ne vedo tanti che all’aumentare delle miglia aumentano la spocchia e la pienezza di sè, cosí come, fortunatamente, ne vedo tanti che avendo poco o mai messo piede su una barca assorbono quella cultura e quel modo di essere e se ne innamorano.

Il libro di Alfred Lansing: Endurance. L’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud

Gli altri libri della nostra libreria del mare: Libreria del mare

storia dell'Endurance isola di elephant

Il salvataggio degli uomini lasciati sull’Isola di Elephant
storia dell'endurance rotta
La rotta dell’Endurance e del suo equipaggio

 

2 commenti
  1. Sara
    Sara dice:

    Non la conoscevo, grazie… È arrivato fino a Battiato il fascino della storia di Shackleton…

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