Le Azzorre: un altrove teorico
Nel prologo del suo “La donna di Porto Pim”, raccolta di racconti interamente ambientati alle isole Azzorre, Tabucchi scrive: “Ho molto affetto per gli onesti libri di viaggio… Essi posseggono la virtù di offrire un altrove teorico e plausibile al nostro dove imprescindibile e massiccio“.
Rimandata la partenza da Faial di un giorno e colta al volo l’occasione per fare un lungo giro dell’isola, capisco perché le Azzorre possano aver esercitato tanto fascino su uno scrittore già di suo predisposto alla malinconia. Queste non sembrano isole, sembrano un luogo inesistente, davvero un altrove teorico, messo qui per ricordarci che altro non siamo che il frutto di un’esplosione, un’aggregazione di atomi, in continuo confronto con forze molto più grandi e potenti di noi.
Poco più di 50 anni fa il vulcano di Faial, il Capelinhos, è esploso in un’eruzione potentissima, che ha creato un’intera porzione di isola fino ad allora inesistente, riproducendo lo stesso meccanismo per cui milioni di anni fa si sono formati i continenti così come li conosciamo. E ricordandoci che nulla è cambiato, da quel punto di vista.
Il faro poco lontano dal cratere è perfettamente conservato, e salire fino in cima in una giornata come oggi, di vento da Sud Ovest, lato verso cui il faro guarda, ti toglie il fiato. Sei circondato da crateri vulcanici, da foreste verdissime, in un mare pieno di balene, che rappresentano forse la più grande metafora del mistero e della possenza dell’oceano. Proprio a loro, alle balene, Tabucchi fa descrivere gli uomini, in un rovesciamento di ruoli che alle isole Azzorre viene facile, tanto legata è la loro esistenza a quella dell’oceano e dei cetacei.
Il romanzo è ambientato a Porto Pim, ultima tappa del giro di oggi. Un borgo affacciato su una baia dove i balenieri trascinavano le carcasse per lavorarle, ben protetta ma con una risacca potentissima, che fa frangere onde altissime fino alla terrazza della taverna. Per prendere una birra ci vuole la cerata…
Dalla taverna si vede l’ingresso della “fabbrica delle balene”, oggi se Dio vuole museo e non più mattatoio. Così una di loro descrive gli uomini in uno dei racconti di Tabucchi:“
Non amano l’acqua, e la temono, e non si capisce perché la frequentino. Anche loro vanno a branchi, ma non portano femmine, e si indovina che esse stanno altrove, ma sono sempre invisibili. A volte cantano, ma solo per sé, e il loro canto non è un richiamo ma una forma di struggente lamento. Si stancano presto, e quando cala la sera si distendono sulle piccole isole che li conducono e forse si addormentano o guardano la luna. Scivolano via in silenzio e si capisce che sono tristi“.